Venerdì, 18 Luglio 2025

Cronaca

I familiari non credono alla ricostruzione degli inquirenti

Michele Dinoi impiccato nel cappuccio della sua felpa (la foto del luogo della tragedia)

Michele Dinoi e l Michele Dinoi e l'inferriata | © La Voce di Manduria

«L’impossibilità di ricostruire lo svolgimento del fatto non consente di formulare un’accusa sostenibile in giudizio». Con queste parole il gip del tribunale di Taranto, Rita Romano, ha chiuso definitivamente il caso sulla misteriosa morte di Michele Dinoi, il diciottenne manduriano trovato in fin di vita la sera del 27 dicembre del 2017 nella veranda esterna di casa. E sono queste parole che per i suoi familiari, il padre Damiano e la sorella Martina, l’archiviazione diventa ancor più insopportabile.

I due, che durante i tre anni delle indagini si sono fatti assistere dall’avvocatessa Sara Piccione, trovano inspiegabile tante cose ma soprattutto la dinamica indicata come causa dell’asfissia che ha causato poi il coma irreversibile e la morte di Michele dopo sei mesi di ricovero. Ricostruzione che nemmeno gli investigatori sono riusciti a farla con convinzione aggiungendo ai fatti delle ipotesi presuntive. «Non è stato possibile – ammettono gli inquirenti – chiarire la dinamica dell’evento, atteso che può lasciar perplessità l’ipotesi che il fatto sia stato causato da una caduta accidentale o da un malore improvviso». Secondo i magistrati e i periti incaricati, nella caduta dovuta a qualsiasi causa, la testa di Michele si sarebbe infilata, da sola, tra i decori in ferro della ringhiera mentre il cappuccio della felpa che indossava si sarebbe agganciato in qualche punto strozzandolo.


I familiari insistono e non credono alla possibilità di una caduta ma soprattutto che la testa da sola si possa essere infilata nella struttura bassa poco più di ottanta centimetri dal terreno. E mostrano la foto dell’inferriata dove in effetti si fa fatica a pensare che la testa possa essersi introdotta e rimanere appesa al cappuccio della felpa.
Stessi dubbi si pone l’avvocato della madre di Michele (i suoi genitori sono separati) che nella opposizione alla richiesta di archiviazione avanzata dal piemme, ipotizza senza esitazioni che ad infilare la testa del ragazzo nell’inferriata sia stato un suo amico di cui si fa il nome: «che avesse lui stesso infilato la testa di Michele nella ringhiera per spaventarlo e la cosa gli fosse sfuggita di mano?».
In effetti nella triste storia di Michele ruotano personaggi oscuri e storie inquietanti di debiti e di droga, di comportamenti strani di amici e conoscenti, di strani messaggi fatti arrivare alla sorella dopo la tragedia. Dalla morte del ragazzo è nata una inchiesta parallela che ha permesso ai carabinieri di indagare nove giovani manduriani accusati di traffico e spaccio di sostanze stupefacenti.

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