Sabato, 5 Luglio 2025

Attualità

Lui e la moglie scoprono di essere stati contagiati dal virus, le cure, l'isolamento e finalmente il ritorno al lavoro

La storia di Cosimo, infermiere di Torricella che ha combattuto contro il virus e ha vinto

Cosimo De Pascalis con la moglie Cosimo De Pascalis con la moglie | © La Voce di Manduria

L’epidemia ci sta raccontando molto della fragilità dell’uomo. Sembravamo capaci di controllare tutto, invece in un attimo ci scopriamo più vulnerabili che mai. Tutti, nessuno escluso. La storia di Cosimo, infermiere torricellese che ha combattuto contro il virus e ha vinto.

Si chiama Cosimo De Pascalis, ha trent’anni ed è originario di Torricella. E' infermiere e lavora all’ospedale della casa circondariale “Dozza” di Bologna, in quell’Emilia dove vive da ormai 10 anni. Da fine febbraio la routine lavorativa è stravolta dall’emergenza Coronavirus: un numero incredibile di ammalati, le corsie totalmente invase da pazienti Covid, lo sconforto generale e persino una rivolta partita dalle celle e arrivata fino all’ospedale del carcere. E poi la notizia, tanto tragica quanto attesa: sia lui che sua moglie - medico - positivi al Coronavirus. È solo l’inizio di un periodo travagliato, da cui però entrambi sono usciti vincitori.

La prima cosa che mi viene da chiederti è la più banale: come stai?

«Sto bene, sia mia moglie che io siamo completamente guariti, anche se il test sierologico fatto pochi giorni fa ci ha confermato, com’era prevedibile, che non abbiamo sviluppato alcun tipo di anticorpo o immunità».

Mi descrivi che esperienza è stata con tre parole chiave?

«Frustrazione. È la prima parola che mi viene in mente. Perché noi sanitari eravamo allarmati fin dall’inizio dell’epidemia in Italia, fin dalle primissime battute abbiamo chiesto insistentemente l’utilizzo di dispositivi di protezione individuali adeguati, che spesso non ci era permesso utilizzare per non creare allarmismo nelle persone. Consapevolezza è la seconda. Perché siamo abituati a pensare che le cose brutte succedano solo agli altri, ma l’isolamento ti permette di riflettere tanto e muta moltissime certezze. E poi liberazione, perché alla fine abbiamo tirato un sospiro di sollievo visto che poteva andarci peggio. Ma poter tornare al lavoro ha reso felicissimi sia mia moglie che me».

Da un punto di vista operativo, in che modo hai ottenuto la possibilità di ricevere il tampone? Come ti è stato comunicato il suo esito?

«Sia in carcere che in ospedale erano stati registrati i primi casi “sospetti” ed era verosimile che l’infezione si fosse sviluppata prima che noi sanitari prendessimo tutte le misure utili a contenerla. Ho effettuato il tampone all’interno della mia struttura ospedaliera. Prima che arrivasse l’e-mail con il referto ufficiale, ho saputo da una collega che il mio tampone era positivo. È stata una sensazione strana».

Com’è stato sentirselo dire, soprattutto in quel periodo? Eri più stranito, arrabbiato o sorpreso?

«In realtà non ero troppo sorpreso. Molti colleghi avevano già contratto l’infezione e non potevo pensare di non essere a rischio. All’inizio non avevo sintomi, ma ho comunque pensato alla reazione dei miei cari lontani a Torricella. Poi ho pensato ai miei cagnolini: era positiva anche mia moglie e non potevamo più portarli fuori. Ci hanno aiutato una vicina di casa e una volontaria che non smetterò mai di ringraziare. In quella situazione anche le cose più semplici divengono complicate».

Eri asintomatico quando hai avuto l’esito del tampone, ma poi immagino tu abbia sviluppato i sintomi tipici.

«Febbricola per un giorno e mezzo, la temperatura non ha mai superato i 37 gradi e mezzo. Per circa una settimana invece ho avuto cefalea, astenia, dolori muscolari, disturbi gastrointestinale e completa perdita dell’olfatto. Gradualmente i sintomi sono tutti rientrati e ho trascorso il resto dell’isolamento in perfetta salute».

Quando hai saputo di aver contratto l’infezione, la sua diffusione era già in stato più o meno avanzato. Quali informazioni certe avevi sul virus in quel periodo?

«Essendo infermiere, ero abbastanza informato sui vari aspetti del virus, dal periodo di incubazione alla contagiosità e alle vie di contagio, dai sintomi al decorso clinico. Ho comunque imparato altre cose durante la degenza perché quando sei coinvolto in prima persona se possibile ti informi ancora di più. Ho scoperto tra l’altro che alcuni sintomi come la perdita di gusto e dell’olfatto (all’inizio quasi sconosciuti) erano tra i più comuni tra gli infettati. Si stima che 8 persone positive su 10 li manifestassero».

La tua situazione ha sicuramente mutato la tua percezione delle informazioni sul virus, anche quelle che provenivano da fonti ufficiali. Qual è diventato il tuo rapporto con le voci istituzionali?

«Sono rimasto un pò deluso dalle istituzioni “tecniche", ho avuto l’impressione che parlassero esclusivamente da tecnici appunto e non da medici. Gli ho trovati un pò distanti da noi che invece eravamo perennemente in corsia a combattere contro l’epidemia. Da paziente poi questa distanza si è addirittura accentuata».

Spesso tendiamo a prendere coscienza delle realtà un attimo dopo, quando qualcosa è già successo. Quando hai preso coscienza della tua situazione? E soprattutto com’è cambiata la tua vita?

«Il mio stile di vita era rimasto pressoché identico anche durante le restrizioni iniziali, seppur con qualche limitazione. Andavo in ospedale, continuavo a lavorare, portavo fuori i cani e andavo a fare la spesa. La mia routine era la stessa di sempre, senza le uscite ludiche. Dopo la positività invece è cambiato parecchio. L’isolamento è frustrante, devi chiedere per qualsiasi cosa. Ormai siamo talmente abituati all’autonomia più estrema che ci dimentichiamo com’è aver bisogno. Però si capiscono tante cose delle persone in questi periodi. La prima volta che ho realizzato di non poter portare i cani fuori è stato triste. Lì ho pensato “Cavolo, mi ha preso davvero” e ho capito che qualcosa era cambiato».

C’è un momento in cui - anche in una fase come questa - un medico o un infermiere smette i panni del professionista e torna ad essere un genitore, un marito o anche semplicemente un figlio?

«Per fortuna o purtroppo non ho mai smesso i panni da infermiere anche nella routine quotidiana da contagiato. Per me è stato fondamentale razionalizzare la mia condizione. Ciò mi ha permesso di controllare il mio stato emotivo, ridurre l’ansia e gestire al meglio la situazione. Non nego che in alcuni momenti, soprattutto nei primi giorni, quando i sintomi si erano manifestati e non sapevo come sarebbero evoluti, ho avuto un po’ di paura».

In questi momenti si riscopre il significato dei piccoli gesti come hai detto tu. Ma io penso anche alle parole: i tempi più bui spesso mutano il loro significato o semplicemente lo rendono più evidente. In che modo si declinano oggi per te parole come “paura” o “felicità”?

«La paura si declina nel senso dell’impotenza, dell’abbandono, della perdita del controllo della propria vita. Mai come in questa situazione mi sono sentito abbandonato da chi invece aveva il dovere di sostenermi. E non mi riferisco ovviamente agli affetti. Sono un infermiere, razionalizzavo la mia paura, ma la difficoltà di farsi fare il tampone, l’incertezza su chi contattare, sono cose che mi hanno messo a disagio. Pensa che ho ricevuto il certificato di quarantena da pochi giorni e solo poche ore prima del certificato di guarigione. Poi invece ho avuto la conferma che la felicità sta nelle piccole cose, come ne “Il gabbiano Jonathan Livingston”. Sembra banale, ma è così: assaporare il cibo, sentire l’odore del caffè al mattino o apprezzare un calice di vino».

Possiamo dire che - con le dovute restrizioni - sei tornato alla normalità. Com’è andata?

«Il ritorno alla normalità per me è stato tornare a lavorare. Dentro di me sento però un grande conflitto: da sanitario credo che le restrizioni debbano prolungarsi fino al contagio zero, continuando poi la vita “normale” con l’utilizzo di Dpi, distanza di sicurezza, ingressi contingentati in luoghi pubblici e igiene fino al vaccino o alla scoperta di un farmaco che curi l’infezione. Ma spero anche, come tutti, di tornare presto alla normalità vera».

Gianpiero D’amicis

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2 commenti

  • Lucio
    dom 26 aprile 2020 03:26 rispondi a Lucio

    Chiedo gentilmente al Sig. Cosimo spiegazioni sulla frase "anche se il test sierologico fatto pochi giorni fa ci ha confermato, com’era prevedibile, che non abbiamo sviluppato alcun tipo di anticorpo". Mi aspetterei il contrario.

    • cosimo de pascalis
      sab 4 luglio 2020 03:08 rispondi a cosimo de pascalis

      Salve Lucio, mi scuso per il ritardo ma non avevo letto il suo commento. Purtroppo al contrario di quello che dicono i media, i test sierologici attualmente disponibili non mostrano una copertura immunitaria al 100%. Sia io che mia moglie non abbiamo sviluppato anticorpi contro il virus e conosco altre persone nelle nostre stesse condizioni. Resta il dubbio sull'affidabilità di tali test. Cordiali Saluti

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