
Tanti, ma tanti anni fa, il primo giorno del mese di ottobre, coincideva pure col primo giorno di scuola di bambini e ragazzi. Quel giorno era, per i più, il ritorno, non molto gradito, sui banchi scolastici per apprendere ed imparare. Erano però i bambini dei sei anni che dovevano adattarsi a nuovi modi di crescere. I genitori erano stati, sino a quell’età, il riferimento adatto. Molti, in vero, già erano stati affidati, piccolini, alle cure di estranei. I genitori, che potevano permetterselo, affidavano quelle piccole anime a suore doviziose che, comunque dietro remunerazione, si prendevano cura delle creaturine. Insegnavano come farsi il segno della croce e tutte le preghiere e preghierine per presentarsi davanti Iddio ed ai Santi: poco sarebbe servito questo spreco nei tempi a seguire. I papà che avevano idee non affini con le “sorelle”, mandavano i figlioletti dalle “maestre”, laiche e di poca pretesa. Solitamente, per tenerli a bada, facevano fare ai piccini quei girotondi ispirati da un monotono ritornello che alla fine diceva “…il mare è fondo, tondo il mondo, tutti giù per terra…” e tenendosi per mano tutti andavano a terra come birilli. Gianni Rodari non lo si conosceva !
Davanti l’edificio scolastico, c’era un raduno chiassoso. Un frastuono di bambini che correvano un po’ da tutte le parti. Finiva quando suonava la campanella per l’ingresso in aula.
Non c’erano madri o padri. La strada come percorrerla la si conosceva già. Solo qualcuno della “ prima”, che faceva il riottoso veniva accompagnato.
C’era un altro edificio chiamato “il tugurio” ( In realtà secoli prima, quand’era nei suo fasti, vi avevano alloggiato famiglie nobili) che aveva altre classi. Poverini gli scolari che vi erano destinati: luogo tetro dalla poca luce, ne sarebbero usciti con qualche problema alla vista.
Si entrava alle 8,30, ma c’erano anche i turni pomeridiani, dopo la guerra, la seconda, c’erano più scolari che aule. Quelli della “prima” aspettavano nei corridoi, prima che il maestro, o maestra, formasse le classi. Non si mescolavano i generi. Ognuno nella classe dei maschietti ed ognuna nella classe delle femminucce. Indosso una “divisa”. Un grembiule nero, dopo anche blu, con un colletto bianco ed un fiocco annodato. Molte mamme, addette all’economia della famiglia, se lo cucivano in casa lo scampolo, più economico. Solitamente lo si faceva “a crescenza” per non essere costretti a doverlo cucire ognuno degli anni a venire. Succedeva, così, che era lungo e largo in “prima” e, corto e stretto, da far saltare i bottoni, in “quinta”. Il corredo dello “studente” era striminzito, per alcuni quasi nullo. Nella cartella, di cartone, economica, poche di cuoio, nera, si metteva un quaderno dalla copertina nera, la penna col pennino. Si usava l’inchiostro del calamaio, e guai a macchiare il quaderno: erano pronte dolorose bacchettate sulla mano. Non poteva mancare il sussidiario, l’abbecedario, un libricino per imparare a leggere. Siccome leggere, per chi aveva conosciuto solo il dialetto, non era cosa facile, si potevano ammirare i disegni stampati. Bello quello riguardante il Natale, con la neve. O quello della Pasqua con i fiori rosa dei peschi e le campane dei “ din don dan”.
In classe c’ erano certi banchi neri, a due posti, forse lascito di quel ventennio anch’esso nero. I piccoli della “prima” per essere iniziati allo scrivere cominciavano a fare le “aste”, linee verticali che dovevano susseguirsi l’una all’altra. Poi venivano le vocali ( cosa erano ?). Dalla lavagna si dovevano copiare quei simboli, che dopo avrebbero avuto dei significati. Si andava avanti così per mesi interi.
Il primo giorno di scuola rapidamente passava. Il suono liberatorio della campanella e si usciva dall’ aula. Intruppate, ordinate, al comando dei maestri che li accompagnavano al portone desiderosi di liberarsene, le classi si scioglievano e gli “ scolari” facevano veloce ritorno a casa non prima aver fatto volare le cartelle in aria. Quelli della “prima” avevano un bel po’ da raccontare. Chi deluso delle cose del primo giorno e chi aveva già il terrore e la paura di non farcela sino alla fine. Qualcuno delle ultime classi, infatti, si rimetteva, poi, alla volontà dei padri: andare nelle botteghe per pigliare un mestiere, o andare nei campi per far nascere e crescere una pianta da un piccolo seme. Meglio che imparare a memoria quanti e quali fossero i sette re di Roma. Anche con queste rinunce e scelte, comunque sarebbero stati, poi, più competenti nel loro lavoro scelto. Meglio di coloro che avrebbero continuato a studiare per farsi chiamare “ dottore e professore “.
Egidio Pertoso
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1 commento
Giuse Dinoi
ven 15 settembre 15:16 rispondi a Giuse DinoiComplimenti al signor Egidio Pertoso ha raccontato la nostra storia di un'infanzia a dir poco spensierata 👏👌👍