Quello che un tempo accadeva nella palazzina Laf, dove gli operai indisciplinati venivano isolati nella famigerato reparto dell’acciaieria, accade ancora a Taranto, ma in corsia. Non più tute blu, ma vittime in divisa bianca sopraffatte dal potere di chi comanda. È successo nella clinica D’Amore condannata dal Tribunale del lavoro di Taranto a risarcire il danno provocato a due dipendenti del ruolo tecnico che per un anno, secondo la sentenza, sarebbero state vessate e umiliate in mille modi dai propri superiori. Le due sentenze, pubblicate l’altro ieri 8 novembre, hanno come protagonisti due ausiliarie di Sava e di Lizzano, dipendenti della clinica tarantina ex D’Amore, ora di «Città di Lecce hospital gym care & research srl»; il giudice della sezione lavoro del Tribunale jonico, Lorenzo De Napoli e l’avvocato delle due mobbizzate, il manduriano Antonio Pompigna del foro di Taranto. Per il giudice che ha accolto la tesi difensiva delle due parti lese, non ci sono dubbi: «la condotta posta in essere (dal datore di lavoro, ndr) integra il denunziato mobbing». Il racconto delle due lavoratrici, confermato da numerose testimonianze, descrive un comportamento più che persecutorio da parte dell’amministratore delegato della società proprietaria della clinica.
Episodi che fanno rabbrividire, responsabili, scrivono le perizie mediche a cui le due donne sono state sottoposte, di «disturbi depressivi di grado medio riconducibili in rapporto causale alle vicende lavorative dedotte in ricorso» che hanno causato «un danno biologico». Tutto era nato, racconta la sentenza, dal rifiuto delle due lavoranti di presentare le dimissioni volontarie ed accettare passivamente il passaggio nell’organico di una ditta esterna a cui la proprietà della clinica aveva affidato il servizio pulizie. Le due donne che si erano rifiutate di «licenziarsi» sarebbero state sottoposte ad «una lunga serie di sistematici e reiterati comportamenti ostili e vessatori da parte del datore di lavoro». Non solo l’isolamento e il demansionamento e la minaccia di perdere il lavoro, ma anche vere e proprie violenze psicologiche ad altri comportamenti che provocavano disagi e disturbi fisici. Tra queste, spiegano le carte presenti agli atti, «l’obbligo di pulire gli spogliatoi e una volta puliti, ricominciare da capo e così per sei ore di fila tutti i giorni». Alle dipendenti, inoltre, quando erano del turno serale (smontavano a mezzanotte), «veniva imposto di lavorare in lavanderia collocata nel seminterrato, zona abbandonata dove non vi era nessuno, da sole e con il divieto assoluto di comunicare con le colleghe che stavano al piano superiore». Durante l’inverno, infine, le mobbizzate sarebbero state costrette «a pulire il giardino e le scale esterne, sotto la pioggia ed il freddo, con addosso la sola divisa estiva, unica divisa fornita dall’azienda, ed in dotazione alla ricorrente, ovviamente trattamento riservato a chi come lei, non aveva inteso dimettersi, perché il resto del personale aveva la divisa invernale». Per questo il giudice ha condannato la società proprietaria a rifondere un risarcimento complessivo alle due dipendenti pari a circa 40mila euro oltre alle spese legali e di giudizio.
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