Giovedì, 1 Maggio 2025

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Galilea o lunedì dell’Angelo

Le mie pasquette in Calabria

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In Calabria non si chiamava Pasquetta, ma Galilea o lunedì dell’Angelo. Che poi sono dizioni più corrette di Pasquetta.

Passata la tristezza del venerdì santo, era tutto un organizzarsi.

Parola d’ordine:

«Dove passiamo la Galilea?»

Immancabile, ogni anno, la protesta di mio padre. Lui “sull’erba” ci mangiava tutta la settimana per lavoro, tranne la domenica e le feste:

«Un giorno che posso mangiare seduto e con i piedi sotto il tavolo, devo mangiare su di un prato?!»

Ma poi era il primo a godere di quel giorno all’aperto con vicini, parenti, amici perché la Galilea era una vera e propria transumanza e dato che le auto scarseggiavano, si procedeva a piedi tra sentieri impervi, sino a raggiungere la campagna decisa come meta!

Il lunedì mattina era un fermento sin dalle prime luci dell’alba con le donne che preparavano, infornavano, friggevano…

Poi tutto veniva impacchettato nelle tovaglie da tavola, che sarebbero anche servite per “apparecchiare” il prato e, tra un vociare allegro, si partiva.

Un’ammazzata che non si può raccontare!

Le donne con cesti pieni in testa, gli uomini con cassette sulle spalle perché oltre al cibo c’erano i fiaschi di vino e acqua da portare, ma quando io ero piccola, non c’erano piatti, bicchieri e posate di plastica, così ti caricavi anche le stoviglie.

Noi bambini non eravamo esentati da quel trasloco.

Io aveva la mia “vozzareja”, una piccola otre di terracotta piena di acqua. Ma una delle cose che imparano presto le femmine è come fregare un uomo, e il primo uomo che fregano, è il papà.

Così, a nemmeno metà percorso, tra uno sguardo languido e un sorriso, fingendomi stanchissima, mollavo il piccolo carico, a mio padre.

Mio fratello, più furbo di me, toglieva il tappo al suo contenitore e, strada facendo versava più di metà dell’acqua, non per motivi ecologici e annaffiare il prato, ma perché era un delinquente in erba.

Finalmente si arrivava alla meta e dopo quella sfacchinata, ti saresti mangiato anche i sassi e i tronchi d’albero.

Si apparecchiava e si tirava fuori tutto quel ben di Dio!

Una particolare menzione merita il menù.

Pasta al forno alta almeno 20 centimetri. Da sempre apoteosi del riciclo perché al suo interno, oltre a uova sode e polpettine, ci trovavi tutti i formaggi avanzati, pezzi di salame, mortadella, sugo da annaffiare il deserto del Sahara.

Dato il primo leggero, spuntavano fuori cotolette, pollo al forno con le patate, frittate e focaccine varie.

Per rifarsi la bocca, quintali di pane, salame, olive, melanzane e funghi sott’olio.

Frutta… poca perché pesante.

Per finire, i dolci. Rigorosamente i taralli e lì cominciava il derby tra le donne a chi li preparasse meglio.

Mia madre, oltre ai taralli fatti da lei, aveva l’asso nella manica: LE CUZZUPE, dolce tipico del suo paese e che le zie, nei giorni prima di Pasqua, ci mandavano con il pullman di compare Totò Lipari (da piccola ero convinta che quella corriera fosse sua, sino a quando non scoprì che era della Calabro Lucana e lui era solo l’autista).

Il corriere Bartolini di quei tempi.

Finito il pranzo, gli uomini, sesso forte anche con la forchetta, sembravano soldati caduti sul campo di battaglia. Praticamente morti sul prato.

Le donne rassettavano velocemente e si dedicavano all’arte più in voga: il pettegolezzo nostrano, precursore del gossip.

Noi bambini avevamo la digestione veloce e iniziavamo a giocare a mosca cieca, “acchiapparella”, palla… giochi che non credo esistano più, tra le DOLCI raccomandazioni delle madri:

«Se sudi e ti viene la febbre, ti do mazzate che te le ricordi sino a Natale!»

«Se cadi e ti fai male, ti do il resto!»

Metodo Montessori delle nostre mamme.

Le ragazze, invece, si riunivano a bisbigliare di chissà quale amore e trepidazione di cuore.

A un certo punto del pomeriggio, qualcuno diceva:

«Tra poco farà buio» ed era il segnale che bisognava rientrare.

Si raccoglievano le stoviglie, ma nonostante il carico fosse più leggero dell’andata, l’allegria era svanita.

Già la mente andava al giorno dopo e alla quotidianità…

Fortunata Barilaro

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