Venerdì, 19 Aprile 2024

Tarantismo, stregoneria, sessualità e peccato nella Manduria e nel Salento del '700

?Il Tarantismo in Manduria e dintorni - Parte 2

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Il Tarantismo in Manduria e dintorni (Parte 2) a cura di Gianfranco Mele

La ricercatrice inglese Janet Ross intraprende intorno al 1888 un viaggio in Italia: nella sua tappa pugliese è accompagnata dal manduriano Giacomo Lacaita. Assiste al ballo della “pizzica-pizzica” presso la masseria di Leucaspide a Statte (Taranto), e successivamente conosce un altro manduriano, Eugenio Arnò, al quale rivolge una serie di domande sul tarantismo. Nella sua opera The Land of Manfred prince of Tarentum, edita a Londra nel 1889, descrive queste esperienze. Vi riporta anche i testi di tre canzoni popolari che ha raccolto: trascrive tre canzoni: Riccio Riccio, Larilà e La Gallipolina.

La descrizione che Eugenio Arnò offre del tarantismo è molto particolare, come la stessa ricercatrice osserva, poiché l' Arnò distingue fra “tarantismo secco” e “tarantismo umido”, indicando con quest'ultimo termine l'usanza di ballare presso sorgenti d'acqua. Vediamo, a seguire, uno stralcio del testo della Ross:

“Le informazioni che mi diede Don Eugenio, spettatore di centinaia di casi, differiscono da quelle avute da altri. Egli mi diceva: Esistono varie specie di quest’insetto che ha differenti colori, e vi sono due specie di tarantismo, quello umido e quello secco. Le donne, quando lavorano nei campi di grano, sono più soggette ad essere morsicate a causa delle poche vesti che portano addosso, durante il caldo eccessivo. Il male si annunzia con una febbre violenta, e la persona colpita di dimena furiosamente in tutti i versi gridando e lamentandosi. Allora subito si fanno venire dei musicanti, e se la musica che si suona non incontra la fantasia della tarantata (o tarantato, vale a dire la persona morsicata), la donna ( o l’uomo) si contorce e si lamenta più forte, gridando ”no, no, no questa canzone“. I musicanti allora cambiano immediatamente motivo, e il tamburello strepita e picchia furiosamente per indicare la differenza del tempo. Finalmente quando la tarantata trova la musica che fa per lei, si slancia d’un balzo e si mette a ballare freneticamente.

Se poi si tratta di ”tarantismo secco“, i parenti cercano il colore dell’insetto che l’ha morsicata, e le adornano le vesti e i polsi di nastri dello stesso colore dell’insetto, bianco o celeste, verde, rosso o giallo. Se nessun colore risponde a quello che si cerca, allora vien coperta da strisce di ogni colore, che svolazzano intorno a lei come essa balla, si dimena, si agita con le braccia per aria, da vera indemoniata. La funzione o cerimonia si comincia generalmente in casa; ma va a finire sempre per la strada, sia per il caldo, sia per la tanta gente che si raccoglie. Quando finalmente la “tarantata” si calma, vien messa in un letto caldo, dove dorme qualche volta sino a diciotto ore di seguito. Pel “tarantismo umido“, i musicanti vanno a sedere per lo più vicino ad un pozzo, dove la tarantata viene irresistibilmente attratta; e mentre la disgraziata balla, un numero straordinario di parenti e di amici la inondano d’acqua, per cui, diceva Don Eugenio, ”è incredibile la quantità d’acqua benedetta che viene consumata“. E ne parlava con vero dispiacere, perché in Puglia non è difficile il caso, che il bestiame muoia in estate per mancanza d’acqua. Pare che il “tarantismo umido” sia quello peggiore, perché talvolta la febbre si prolunga a sino a settantadue ore; ma in tutti e due i casi, fui assicurata che se i musicanti non sono chiamati, la febbre continua indefinitivamente, e viene qualche volta seguita da morte.

Vicino a Taranto” continuava Don Eugenio, “c’è un mastro muratore che conosco benissimo, il quale pieno d’idee moderne, beffeggiava chiunque gli parlasse di morsi velenosi della tarantola, e minacciava di battere le donne di casa se si fossero permesse di chiamare i musicanti in caso di morsi di tarantola. Sia stata fatalità, sia stato volere di San Cataldo, un bel giorno fu morsicato proprio lui; e dopo aver sofferto tutte le pene dell’inferno, con un a febbre indiavolata per parecchi giorni, finalmente mandò a chiamare la musica, dopo aver chiuso accuratamente tutte le porte e le finestre della casa. Ma il delirio fu tanto forte che con gran gusto di quelli che credono nel “tarantismo”, spalancò la porta e si slanciò in mezzo della strada, gridando con tutte le forze che aveva” Hanno ragione le femmine! Hanno ragione le femmine!

Per questo trascrissi la musica della tarantella che mi fu insegnata da un vecchio contadino che la suonava sul violino, accompagnato da suo figlio con la chitarra battente, e da un altro con la chitarra francese. Erano tutti e tre chiamati spesso per i ”tarantati “, e mi assicurava che quel motivo aveva sempre un gran successo.”

Il Tarantismo secondo Giuseppe Gigli

A fine Ottocento viene pubblicato il lavoro del manduriano Giuseppe Gigli, “Superstizioni, pregiudizi e tradizioni in terra d'Otranto”, che contiene un capitolo dedicato alla tarantola. Questo, lo scritto del Gigli al proposito, che riportiamo per intero data la sua ricchezza e singolarità di informazioni:

«Altro pregiudizio del popolo di terra d'Otranto, o che non trova riscontro altrove, è quello del ballo nelle morsicature delle tarantole. Pare oramai assodato dalla scienza che la tarantola sia velenosa e, e che perciò il morso di così piccolo insetto abbia molte volte conseguenze gravissime; il professor De Renzi, che se ne occupò di proposito, crede che il veleno della tarantola abbia comune la sostanza con quello della vipera, perciò manifesti la sua azione sul nervo trisplamico e sue dipendenze. Noi non facciamo però altre indagini scientifiche, e notiamo il fenomeno popolare.
Diverse specie di ballo praticansi, per guarire dal brutto male.
Curioso è il modo di spiegare innanzi al ballerino o alla ballerina molti fazzoletti di colore, che i disgraziati guardano fissamente, finchè non trovino quello che nel colore stesso rassomigli alla tarantola. Se, fra le persone che accorrono a curiosare, qualcuno indossi un fazzoletto, o una cravatta che abbia il colore ricercato dal morsicato, è costretto a spogliarsene subito, per dare giovamento al soffrire di colui. Alcuni usano ballare nelle case; altri nei crocicchi delle vie; alcuni vestiti a festa, altri quasi seminudi; alcuni tenendo in mano i fazzoletti, o simili adornamenti femminili, altri reggendo pesanti arnesi della casa. Uno dei più barbari balli è quello che taluni fanno nell'acqua. E non solamente nell'acqua si agitano per mozza persona, ma continuamente se ne versano con un catino sul capo e sulle spalle. E' una cosa che muove a pietà, a sdegno per così orribile pregiudizio! Immancabilmente è accompagnato il ballo dal monotono e cadenzato suono di un violino, e dal rullo d'un tamburello colle nacchere; suono e cadenza che si approssimano all'altro della pizzica-pizzica che è il ballo più antico e veramente popolare, tutto proprio del nostro popolo, la cui tradizione si spegne nei secoli più lontani. Il violino è suonato da un uomo, e il tamburello da una donna, la quale intona di tanto in tanto un lamentevole canto. C'è in tutti questi canti una profonda mestizia e una squisita aria di sentimentalità. Ora s' immagina un tradimento d'amore, che produce a chi balla le presenti pene; ora parla un essere soprannaturale che, compiangendo le umane sciagure, conforta chi balla; ora s'invoca la morte, come unica speranza di veder troncare le pene.

Eccone uno in dialetto manduriano (condito però di parecchi italianismi) che io stesso racolsi da una di codeste cantatrici per mestiere sono tre strofe molto belle e meste nelle quali si finge che chi balla, parta per sempre dalla sua donna:

Malinconicu cantu, ci allegru mai,
cacciami fori sti malincunii.
Comu l'aggiu a cacciari, quannu lu sai?
Aìa nu cori ci lu dunai a te.
Bella, ju partu arrivederci, addiu,
nu' ti scurdari ci ti cori t'ama,
nu' ti scurdari di lu nomi miu,
mentri la sorti untami mi chiama.
Ci lai la noa ca muertu so' iu,
bella, ca ti la càccianu la fiama...
ma tu gnicosa la finisci a Dio,
mentre cu campu iu stu cori t'ama!

Ecco come mi narrò le conseguenze del brutto morso una povera femminuccia del popolo; scrivo quasi come si espresse, meno il dialetto; stupisco ancora che quella poveretta sapesse trovare alcune frasi stupende per esprimere il suo dolore: “Raccoglievo con altre donne la spiga in un gran podere; il sole gettava onde di fuoco; a noi tutte mancava il respiro; tanto che, prima di mezzogiorno lasciammo l' usato lavoro, e ci sdraiammo al rezzo d'un muricciuolo.
Mentre, dopo avere assaggiato un boccone di pane, cercavo di chiudere gli occhi al sonno, all'improvviso ebbi un sussulto, e nello stesso tempo intesi un forte dolore a una mano: mi levai in piedi, cercai la causa del dolore, ma non vidi nulla. Capìi subito però: ero stata morsicata dalla tarantola.
Cominciai a piangere: povera me!
Pei poveri quella è una grande sventura, perchè è una malattia lunga, che vieta loro per lungo tempo il lavoro.
Tornata a casa, cercai di porre qualche rimedio al male con medicature e decotti. Non mi giovò niente.
Dopo qualche tempo il male incalzava. Compresi che un solo espediente mi restava: ballare. Da quel giorno non chiusi quasi più gli occhi al sonno. Un dolore continuo mi teneva in disagio tutta la persona. Ciò però era niente; il male principale era alla profonda malinconia che mi assalse nell'anima. Mi parea ogni cosa oscura, oscura: le persone tutte vestite di nero, dipinte di nero le case. Il pensiero della morte mi prostrava l'anima: pensavo che, morendo, lasciavo un pover'uomo con quattro figli, l'ultimo dei quali ha solo due anni. Durante i due o tre giorni, in cui fecero i preparativi pel ballo, non potetti toccar cibo. La notte che precedette il ballo, fui costretta a stare in piedi, camminando continuamente per la casa. Mi sentivo mancare il respiro, come se una mano di ferro mi stringesse il seno e il cuore.
All'alba mi sentii un poco meglio, e mi sdraiai sul letto. Dopo mezz'ora però un improvviso sussulto mi fece saltare in terra, e da quel momento non ebbi più un istante di requie. Si mandarono in subito a chiamare i suonatori, e si distesero innanzi a me dieci o dodici fazzoletti di vari colori. Cominciai a ballare. Chi può dire quel che soffersi?
Il colore dei fazzoletti non leniva però il mio spasimo: segno che nessuno di essi corrispondeva al colore della tarantola. All'improvviso diedi un grido: avevo visto un giovine, vestito di nero. E m'intesi un poco meglio: quel nero era il colore che dovevo guardar fissamente perchè la tarantola era nera. Dopo tre giorni di continuo ballo, stetti bene». Spesse volte, dopo un anno, approssimandosi la stagion del raccolto frumentario, si ridesta nei morsicati dall'insetto la veemenza del male.Gli spasimi si rinnovano. E la necessità d'un nuovo ballo è ritenuta indispensabile. “


Il testo del Gigli contiene diversi elementi interessanti, a partire dalla spiegazione dettagliata del rituale e dell'ambiente del ballo. La variante del ballo condotto nei crocicchi anziché in casa è interessante poiché ci riporta a considerazioni sulla valenza magica e sacrale del crocicchio o del trivio, di stretta derivazione pagana: il crocicchio o trivio (o quadrivio) è posto di concentrazione di energie, luogo sacro ad Ecate (detta anche Trivia), e ad Hermes: luogo adatto ad oracoli, apparizioni, preghiere, zona franca in cui si svelano e si manifestano le forze dell'occulto, e persino (e coerentemente) luogo di appuntamento e di incontro tra masciàri e masciàre nella tradizione stregonesca salentina.

Come vedremo in seguito (nei prossimi scritti), anche Michele Greco accenna, in un suo saggio dei primi del '900, a riti per la cura del tarantismo condotti, in zona di Manduria, in strada, e dunque non solo all'interno delle mura domestiche. Nei riti osservati dal Greco, una variante alternativa al rito al centro del trivio o del quadrivio è la tracciatura, da parte del tarantato, di un cerchio protettivo sul terreno, entro il perimetro del quale si mantiene, a scopi protettivi (rituale tipico della antica magia cerimoniale, finalizzato alla protezione da energie negative).

Cenni sulruolo dell'acqua nella antica cura del tarantismo

La variante del rituale con il ballo nell'acqua, descritta dal Gigli, è interessantissima sia perchè si ritrova in altre descrizioni che riguardano il tarantismo nella provincia di Taranto, sia perchè il ruolo dell'acqua come elemento purificatore è presente in diverse forme della religiosità e del simbolismo pagano. Sappiamo inoltre che l'acqua del cosiddetto Pozzo di San Paolo rivestiva una funzione importante nella cura del Tarantismo a Galatina (e secondo alcune interpretazioni era utilizzata a fini risanatori anche prima dell'innesto del culto paolino nel locale tarantismo: vedi ad es. il lavoro di Giancarlo Vallone, “Le donne guaritrici nella Terra del Rimorso - dal ballo risanatore allo sputo medicinale” (Congedo Ed.). Tuttavia l'acqua pare avere un ruolo “medico” sin dall'antichità come rimedio specifico per i morsi in genere di animali considerati velenosi. Infine, sembra che almeno sino a fine Settecento un ruolo nella cura del tarantismo lo abbia avuto in passato persino l'acqua del Fonte Pliniano di Manduria: Salvatore Pasanisi, medico manduriano, nel suo Saggio chimico – medico sull'acqua minerale di Manduria, dato alle stampe nel 1790, difatti lascia intendere che doveva esserci l'usanza di “curare i tarantati” con l'acqua del Fonte Pliniano. Inoltre, come abbiamo visto, Eugenio Arnò testimonia, a fine Ottocento, dei balli delle tarantate presso l'acqua di un pozzo. Ma entreremo nei dettagli su questi argomenti in una delle prossime puntate dell'excursus.


BIBLIOGRAFIA

J. Ross, La terra di Manfredi (traduzione dall'inglese di Ida De Nicolò Capriati; illustrazioni di Carlo Orsi), Trani , V. Vecchi, 1899. Ed. inglese: The Land of Manfred prince of Tarentum, Londra, 1889:

G. Gigli, Il ballo della tarantola. In “Superstizioni, pregiudizi, credenze e fiabe popolari in Terra d'Otranto” Firenze 1893

G. Vallone, Le donne guaritrici nella Terra del Rimorso - dal ballo risanatore allo sputo medicinale, Congedo Editore, Galatina, 2004

G. Mele, Echi e aspetti del tarantismo in Sava e nel territorio limitrofo, in: A.A.V.V., Il Delfino e La Mezzaluna, Periodico della Fondazione Terra d'Otranto, n. 8, 2019

A. Basile, Il ballo della taranta a Taranto e nei dintorni albanesi, in Carlo Petrone (a cura di), Il morso della taranta a Taranto e dintorni, Giuseppe Laterza Edizioni, 2002,

A. Caggiano, La danza dei tarantolati nei dintorni di Taranto, in “ Il folklore italiano: archivio trimestrale per la raccolta e lo studio delle tradizioni popolari”, anno VI, Fasc. I-II, genn. - giu. 1981

M. Greco, Superstizioni medicamenti popolari tarantismo, manoscritto, 1912; ried. a stampa Filo Editore, Manduria 2001, (a cura di R. Contessa)

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