A riflettori spenti, l’inchiesta «Impresa» della direzione distrettuale antimafia di Lecce che ha dato il via alle procedure per lo scioglimento per mafia del Comune di Manduria, si è conclusa con un massiccio taglio dei reati di stampo mafioso e l’eliminazione delle aggravanti di mafia per alcuni imputati. Soprattutto, tranne una sola eccezione, per i politici e gli imprenditori la cui presunta collusione ha aperto le porte alla commissione d’accesso che ha fatto sciogliere l’ente Messapico. Due casi per tutti: quello dell’ex presidente del Consiglio comunale, Nicola Dimonopoli e dell’imprenditore manduriano Agostino De Pasquale.
Al primo, difeso dagli avvocati Franz Pesare e Armando Pasanisi, è stato cassato il reato principale di voto di scambio politico mafioso, derubricato nella sentenza del gup con quello ordinario del «voto di scambio», motivo per cui la pena inflitta (2 anni) si è dimezzata rispetto a quanto aveva chiesto la pubblica accusa; emblematico anche il caso dell’imprenditore De Pasquale, titolare del bar situato di fronte al municipio, nei confronti del quale, sempre secondo l’accusa originaria, gli ex amministratori avrebbero chiuso un occhio permettendo abusi e concedendo favori di varia natura. Difeso dai penalisti Lorenzo Bullo e Nicola Marseglia, all’imprenditore in questione è stata del tutto esclusa la contestazione del 416 bis (associazione di stampo mafioso), riducendo così la pena da 10 a 4 anni di reclusione. Stessa cosa all’altro imprenditore manduriano, Pietro Pedone, anche lui difeso da Bullo, ritenuto estraneo ed assolto dal concorso esterno in associazione mafiosa.
L’unico ex politico che deve ancora rispondere di reati associativi di mafia, (con l’esclusione comunque delle aggravanti mafiose), è Massimiliano Rossano che nella macchina amministrativa sciolta perché in odore di mafia ha avuto un peso politico assolutamente marginale e di breve durata. (Assessore sterno non eletto, Rossano ha retto per pochi mesi la poltrona dello Sport e spettacolo).Alla conta dei fatti e ad un approfondimento di lettura della sentenza del gup del tribunale di Lecce, Giovanni Gallo (fermo restando l’esito di un giudizio definitivo di là da venire), appare davvero esile il legame che avrebbe permesso un così forte condizionamento della politica da parte della criminalità organizzata, da costringere gli organi investigativi prima e governativi poi a togliere la legittimità politica del governo cittadino. Altrettanto inspiegabile, sempre alla luce della sentenza dell’altro ieri che ha più che dimezzato gli anni di condanna voluti dal pm, assolvendo 17 imputati e derubricando molti reati, appare il parallelo procedimento in corso al Tribunale civile di Taranto che deve giudicare la presunta incandidabilità di sei ex amministratori ritenuti collusi o manovrati e manovrabili dalla criminalità organizzata. Dei sei politici in questione, tre non sono stati mai indagati e degli altri tre uno è stato completamente scagionato nella fase preliminare delle indagini; degli altri due, uno, l’ex presidente Dimonopoli, ripulito dal reato di scambio elettorale politico mafioso e l’altro, l’ex assessore Rossano, unico con ancora sulla groppa la macchia dell’associazione di stampo mafioso.
Nazareno Dinoi
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1 commento
giorgio sardelli
gio 14 febbraio 2019 02:14 rispondi a giorgio sardelliun vecchio detto che mia nonna ripeteva di tanto in tanto dice: LI CARCIRI SONTU PI LI INNUCIENTI E NO PI CINCA BA ROBBA, Simu tutti ti la stessa natura fatti ti carni e ossa.