
A un’ora nera, tarda, serale, femmine cercavano di mettere a letto noi bambini alquanto riluttanti. Le lenzuola venivano prima riscaldate. Si usava lo scaldaletto, contenitore in ramerossa di carbonella ardente profumata di mirto, passandolo ad ogni angolo del giaciglio. Quando era ben caldo, ci facevano infilare sotto la manta, coperta di lana grezza che urticava la pelle nuda. Era, a fine, il giorno di Ognissanti, il primo del novembre. Il giorno dopo, nel ricordo dei defunti, ci raccomandavano di fare i buoni.
Niente giochi per strada, schiamazzi, risate o litigi. Di notte sarebbero venuti i morti a far visita ai vivi; così almeno ci dicevano i grandi. Noi piccoli non si aveva coscienza della morte; appariva cosa lieve ed anche bella. I preti del catechismo dicevano, invece , che nell’aldilà si avevano tre alternative. Finire all’inferno, al purgatorio o al paradiso. A noi l’inferno faceva paura e, mai sia, andarci a finire. Luogo in cui stare insieme ad altri esseri umani spregevoli ed irrecuperabili, condannati da un Dio giustiziere, alle fiamme di un fuoco eterno, alimentato da diavoli e diavoletti con forconi appuntiti. Altra cosa era il purgatorio. Qui si espiavano colpe lievi, con transito secondo l’entità dei peccati commessi e che un Dio misericordioso era disposto a perdonare. Ma, soprattutto, tutti i fanciulli, da morti, avrebbero voluto andare in quel paradiso di cui si parlava bene.
Lì, per chi si era comportato in modo corretto, senza mai peccare in vita, un Santo, Pietro, al quale Dio aveva affidato le chiavi, spalancava le porte di un luogo di immensa felicità e serena beatitudine. Un posto dove si poteva giocare senza limite, essere accarezzati e coccolati dalla mamma e con il papà tutto dedito a giocare con i figli, senza la maledizione biblica di portare il pane quotidiano alla famiglia. Quindi, noi piccini dovevamo fare i bravi, almeno quella notte in cui sarebbero venuti i morti per testimoniare i nostri buoni comportamenti ed assicurarci il Paradiso. Ci facevano dire le preghiere del requiem aeternam, storpiato in un latino che non c’ era più, per augurare ai defunti la pace e la luce di Dio auspicando di rivederli, poi, nella vita eterna. Domandato cosa messo sulla tavola per accoglierli – fave fatte alla pignata, cicorie in brodo, fichi secchi, fave e ceci abbrustoliti e vino novello, non poteva mancare – ci si addormentava come al sonno della papagna, col crepitìo della brace nel camino.
Al risveglio mattutino, andavamo subito a vedere se i morti avevano mangiato di gusto: avevano fatto fuori tutto! In realtà le femmine, presto presto, mettevano via tutto, ché quel ben di Dio sarebbe stato il pasto della giornata.
Dopopranzo si andava al cimitero, a piedi, partendo da casa. Alcuni andavano in processione: quanti rosari, a suffragio dei defunti si dicevano! Si muoveva pure l’arciprete dalla chiesa madre, con un codazzo di chierichetti. D’obbligo, quel giorno, celebrare la messa, per il sollievo di tutti i morti, nel cimitero, camposanto, pur essendoci sepolte persone di non santo comportamento in vita. Lì, secondo il censo di appartenenza, si poteva notare come gli uomini si erano diversificati nella terrena esistenza. Chi aveva avuto poco o niente, era sepolto sotto la nuda terra. Tombe, erano innalzate dal livello del terreno, come freddi mausolei rivestiti di marmo, adornate di croci e figure di Cristo e putti, angioletti oranti, per chi voleva stare più comodo. Ma erano dei facoltosi le cappelle di grande magnificenza che ci lasciavano meravigliati.
Le famiglie proprietarie le aprivano: all’interno ricchi addobbi floreali. Nei giorni precedenti era stata eseguita gran pulizia dappertutto, con risultati notevoli. Crisantemi, fiori propri dei morti, di ogni colore e per ogni dove, sembravano riprodurre il giardino dell’Eden della primigenie umanità. Colpiva, in noi fanciulli, l’odore della cera dei tanti lumini accesi che, frammisto con quello dei crisantemi, dava un senso veramente tetro al luogo, immagine che avremmo portato nella mente per giorni.
I grandi ci portavano da una tomba all’altra. Ci mostravano gli antenati, quelli di famiglia che non c’ erano più. I nonni dai quali si aveva avuto origine. Spesso sulle tombe non c’era foto, ma solo il nome. I morti “freschi” erano quelli più visitati dai congiunti, vestiti di nero, ancora in lacrime; ma pure, da chi si aggiornava su recenti dipartite. Commiserazione per coloro che se n’erano andati in ancora giovane età senza godersi la vita terrena in contrasto con coloro che, in età veneranda, andandosene, avevano lasciato numerosa discendenza.
Si recitavano, nel brusio generale, le preghiere che non dovevano mancare per i cari defunti. Alcuni affidavano questa incombenza a vecchiette che sgranavano il rosario in cambio di poche lire. Si cercava di alleviare qualche sofferenza nell’aldilà. Magari andar via dal purgatorio e presentarsi prima al cospetto di Dio.
Nel peregrinare da una parte all’altra del camposanto, non mancava d’incontrarsi con conoscenti o altri di famiglia. Ci si ragguagliava di cose quotidiane e sullo stato di salute: si argomentava, perlopiù, di morte e morti. Il tempo così passava, il sole iniziava a scendere. Si era alquanto stanchi. Gran sollievo quando l’arciprete finiva la messa e benediceva le anime tutte, di morti e vivi. Se n’andava in gran fretta ma anche tutti gli altri, a passo veloce, uscivano dal cimitero per il ritorno a casa prima del buio. Non veniva dato modo, a noi bambini, di vedere come, da sotto la terra, i corpi in disfacimento emanassero la luce per far vagare le anime. Quella notte comunque ci sarebbero stati tanti lumini accesi che avrebbero continuato a far compagnia ai morti che ritornavano alla loro quiete eterna ,mentre ai vivi lasciavano, in testa, lo scompiglio di tanti perché, e nel cuore tanta malinconica mestizia.
Egidio Pertoso
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