Ed eccomi qui a scuola. I bambini non si sono nemmeno accorti che io sono diverso da loro, ma i grandi mi vedono come un peso, come un intralcio al loro lavoro. Poi sono cresciuto e mi chiamavano handicappato. Dopo hanno addolcito la pillola, e mi hanno chiamato disabile. Ora sono diversamente abile. Come dire che se un impotente lo chiami “non scopante” quello riesce a fare figli. La scuola è finita e comincia la mia vita. Il mio diploma delle superiori è da incorniciare, ma quando vado a cercare un lavoro mi dicono sempre che mi chiameranno loro. Alcuni li sto aspettando da anni. Mia madre si colpevolizza; si chiede che cosa farò io quando lei non ci sarà più. Vorrei non chiedermelo io, ma sono diversamente abile, mica sono scemo! E mi rendo benissimo conto dei miei limiti, che la Società si rifiuta di aiutarmi a superare. Forse mi metteranno in un istituto ad aspettare la morte; forse mi prenderà con se qualche parente: no! Meglio non sperare in questo miracolo. Tutti sono buoni con tutti, ma non con un diversamente abile.
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