La sesta sezione penale della Corte di Cassazione ha anato senza rinvio, perché il fatto non sussiste, la sentenza di condanna nei confronti del chirurgo vascolare Giancarlo Donnola, finito sotto processo per avere iniziato e interrotto un intervento chirurgico su una paziente già anestetizzata e con il taglio chirurgico eseguito, nell’ospedale Marianna Giannuzzi di Manduria. L’episodio che fece molto scalpore per la singolarità del caso, risale alla fine del 2010. Sottoposto a provvedimento disciplinare da parte della Asl, il chirurgo fu indagato e processato per omissione di atti d’ufficio. In primo grado il professionista era stato condannato ad un anno di reclusione oltre al e del danno alla paziente, pena ridotta a quattro mesi in appello che confermò la responsabilità del danno procurato alla sua paziente.
Giudizi di colpevolezza completamente cassati dalla Corte suprema che ha accolto in pieno le argomentazioni della difesa dell’imputato rappresentata dagli avvocati Franz Pesare e Pasquale Corigliano. Secondo i difensori che hanno saputo così convincere i giudici di ultima istanza, il solo indebito rifiuto del medico a portare a termine l’intervento, non è sufficiente perché si configuri il reato dell’omissione di atti per il quale bisogna provare l’urgenza di intervenire per evitare un potenziale pericolo. L’operazione in questione, invece, ha fatto notare la difesa (la riduzione di vene varicose), è un intervento programmato e quindi non potenzialmente pericoloso. Su questo aspetto il giudice di merito non si era invece espresso.
La vicenda giunta a conclusione dopo otto anni, al di là degli aspetti giurisprudenziali, fa emergere i pessimi rapporti che esistevano tra i chirurghi coinvolti nel caso. Molto eloquente, in proposito, un passaggio della sentenza di appello in cui il giudice rileva «un quadro poco edificante del reparto» classificando il comportamento di Donnola come «frutto (sbagliato) della sua non del tutto immotivata indignazione per il modus operandi dei suoi colleghi». Il chirurgo vascolare, insomma, fu lasciato solo dal secondo medico che avrebbe dovuto assisterlo e che quel giorno ritardò più del dovuto. All’origine di tutto, insomma, fa emergere la sentenza, un clima avvelenato da dissapori e rancori tra i camici bianchi.
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